Stampanti 3D che «fabbricano» bistecche a partire da asettiche cellule di carne. Multinazionali che con la mano destra producono Ogm e con la sinistra distribuiscono pesticidi. Aziende che con i loro tentacoli arrivano ovunque (agroalimentare, ittica, confezionamento, ricerca, finanza,…) e trattano gli alimenti all’insegna del principio «massimo risultato col minimo sforzo», come un qualsiasi altro prodotto commerciale. «Lo spirito del profitto ha conquistato in poche decine di anni tutti gli strati della società rurale – scrivono gli autori di questa documentata inchiesta –. Ne constatiamo oggi i risultati: estinzione di specie, avvelenamento della biodiversità, incidenti sanitari, distruzione o accaparramento di quei beni comuni che sono l’acqua, l’aria, il suolo». Cosa fare di fronte a questo spirito predatorio del capitalismo applicato all’antica arte del cibo? Anzitutto tornare a Socrate, il quale già a suo tempo sosteneva che «nessuno può dirsi politico se non conosce il commercio dei cereali». Ovvero, sapere che l’economia del cibo gioca un ruolo enorme nella convivenza umana. Bisogna conoscere la verità di quel che mangiamo, per decidere in consapevolezza come e di cosa nutrirci. È necessario combattere con gli strumenti della cittadinanza attiva le derive dell’agrobusiness. Alle quali ci si può (pacificamente) ribellare, come suggeriscono Bové e Luneau. Perché la prima libertà da riprenderci è quella di decidere noi cosa metterci in tavola.